duemila anni di storia
Il porto di Taranto da circa duemila anni è protagonista della storia della città. I primi nuclei abitativi sono testimoniati in quest’area, gran parte delle sue ricchezze che l’hanno resa una delle città più floride dalla Magna Grecia passavano da qui. Le varie dominazioni, dai romani ai bizantini, dai normanni ai borboni hanno lasciato traccia in quest’area così strategica ancora oggi.
Indizi di presenza di un porto
Gli scavi del 1899 allo Scoglio del Tonno, nei pressi dell’attuale ponte di pietra “sant’Egidio”, hanno rivelato la presenza di materiale miceneo (civiltà mediterranea diffusa circa dal 1600 a.C. al 1100 a.C.), precisamente vasi e idoletti femminili di terracotta, tanto comuni nei siti micenei della Grecia.
Questi ritrovamenti micenei sono la prova che gli abitanti dell’Egeo frequentavano il tratto di mare che separa la Grecia dall’Italia, fermandosi con ogni probabilità a Corcira (Corfù), utilizzata come luogo di tappa e di deposito. Da questi contatti con popoli d’oltremare, la civiltà locale veniva trasformandosi creando dei presupposti perché un giorno i coloni spartani fondassero Taras.
un mondo di relazioni
Il periodo magno-greco che inizia intorno all’VIII secolo a.C. e va avanti fino al III secolo a.C. quando saranno i Romani a conquistare tutti i territori della Magna Grecia.
Taranto tra V e IV sec. a.C. ebbe fitte relazioni commerciali con le principali città joniche: Siracusa, specialmente durante il governo di Dionisio I (430-367 a.C.) e Dionisio II (397-343 a.C.) e rapporti amichevoli e commerciali anche con Locri, Crotone, Sibari, Eraclea e Metaponto.
Si può supporre, da quanto racconta Erodoto nelle sue Storie (IV, 164), che i Tarantini abbiano avuto scambi anche con Cirene, colonia greca che si trovava vicino all’odierna cittadina di Shahat, in Libia orientale…
Le monete raccontano
I reperti monetari testimoniano più direttamente l’influenza commerciale della città di Taranto nell’antichità. Verso la fine del IV secolo a. C., la moneta tarantina era diffusa a Metaponto, Crotone, Reggio, in Lucania, in Apulia, fino al Piceno e all’Etruria.
Fuori dell’ambito italico, monete coniate a Taranto sono state rinvenute a Lipari e a Cefalonia, in Grecia; avevano da un lato la prora delle navi e dall’altro la figura di Taras col tridente e lo scudo che mostrava un trofeo.
Gli ori di Taranto
Intorno al IV-III secolo a.C. nella Taras magno-greca sono attive botteghe di orafi che realizzano gioielli di particolare pregio.
L’oro e l’argento arrivavano probabilmente via mare dall’Oriente, anche in seguito alle guerre espansionistiche di Alessandro Magno (356-323 a.C.).
Gli artigiani tarantini reinterpretarono in maniera originale i motivi ornamentali della produzione greca, grazie anche all’utilizzo degli smalti.
I prodotti esportati
Fin dalle origini, dal porto di Taranto sono partiti alcuni prodotti tipici della terra pugliese: grano, cereali, olio, vino, pesce e carni salate, ma anche il celebre colorante per indumenti di lusso, la porpora… La produzione della porpora è una delle produzioni legate al mare che fecero di Taranto famosa nella Magna Grecia e al tempo dell’Impero Romano.
Dettaglio di gusci di murici utilizzati per l’estrazione della porpora. . III-II sec. a.C., provenienti dall’ ex convento di S. Antonio, 2012 (fonte MArTa)
La produzione della porpora
I Murici da cui si estrae la porpora si sviluppavano bene nel Mar Piccolo permettendo questa produzione famosa allora in tutto il Mediterraneo.
Da ogni singolo mollusco, veniva estratta una sola goccia di colore. Per realizzare un mantello, ne servivano migliaia: i tessuti tinti con la porpora, particolarmente ambiti per la bellezza e la stabilità del colore, erano quindi costosissimi e rimanevano appannaggio delle classi molto agiate.
La preziosissima porpora poteva essere usata per colorare le famosissime lane della zona, altra attività fiorentissima del territorio tarantino.
I murici, ovvero “li cuecc’le”
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I murici chiamati anche “Lumache di mare” o, a Taranto, “Coccioli” (Cuecc’le) sono dei molluschi dall’aspetto inconfondibile e dal sapore intenso.
Sono protetti da una spessa conchiglia lunga circa 6 centimetri, dalla particolare forma a clava, stretta in basso e larga nella parte superiore, dove vi è una vistosa apertura da cui viene estratto il
mollusco, protetto da un piede calloso che gli consente di spostarsi lungo i fondali e di proteggersi.
Ancora oggi sono proposti come antipasto oppure possono essere cucinati in umido.
La scoperta dei luoghi della porpora
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Nel 1766, durante il suo Grand Tour, il barone tedesco Johann Hermann von RiedeseI (1740-1785) passando per Taranto visita i monumenti antichi in compagnia di Cataldo Antonio Atenisio Carducci (1733-1775), cultore delle cose antiche, e scrive:
“Egli mi fece vedere fuori della citta, in un campo di biade, un buco rotondo voltato per alto, ove si aprono due condotti, l’uno per portar l’acqua e l’altro per farla scorrere; egli crede che questo buco era destinato alla preparazione del colore porporino, di cui vedevasi ancora l’impronta nelle mura: di più egli ha osservato che vicinissimo a lì , dal lato del mare piccolo ch’era propriamente l’antico porto, trovasi una collina interamente formata di murici, conchiglia da cui si sa che gli antichi traevano la porpora”
La ricchezza passa per il porto
Gli storici sono a conoscenza di alcuni mandati di Carlo d’Angiò che ci fanno capire quanto fosse regolare e diffuso il commercio di cereali, di vino, di carne salata. Nell’aprile 1270, il re inviò al Secreto di Puglia (il funzionario regio che sovrintendeva a dogane e tasse demaniali) l’ordine di occuparsi del carico di alcuni quantitativi di vino di proprietà regia in diverse località tra cui Taranto, Bari, Brindisi.
Le vie di terra
I motivi della ricchezza di Taranto nel periodo aureo del suo commercio marittimo , e cioè quello magnogreco e poi romano, erano dovuti non solo alla posizione geografica, ma anche alla rete stradale.
Dal porto di Taranto si dipartivano sei grandi strade, che si irradiavano nelle varie direzioni per tutta l’Italia meridionale: di queste una era il secondo ramo della via Appia, che si distaccava dall’arteria principale a Benevento. Ancora nel medioevo, tra il 1150 e il 1250, dai documenti che ci sono giunti si ha l’immagine di una città nel complesso economicamente vivace, che ancora riesce ad essere un importante punto di incontro di mercanti e di traffici per terra e per mare.
Le strategie dei Bizantini
Nel 663 l’imperatore Costante II (630-668), che voleva limitare fortemente il raggio d’azione dei Longobardi del ducato di Benevento sulla Puglia, sbarca a Taranto con un esercito di migliaia di uomini con squadroni montati a cavallo e libera la Puglia dalla presenza longobarda, poi punta alla conquista di Benevento.
Sicuramente sbarcare a Taranto permetteva di controllare le due arterie stradali, l’Appia Antica e l’Appia Traiana, di fondamentale importanza per riprendere la Puglia. Questo fa capire che le strutture portuali di Taranto erano ancora efficienti, così come potevano esserlo a quei tempi. Per questa operazione Costante II allestì una flotta potente, costituita da navi per il trasporto truppe, navi di scorta, navi da carico, infine navi destriere.
Note di approfondimento
Il dromone è la nave da guerra in uso in questo periodo; discendeva dalla meno agile liburna romana e armava 100 rematori, 50 soldati da sbarco, più una diecina di uomini tra comandante, nocchiero ed altre figure. In pratica vi potevano prendere posto 160 uomini. Le navi da carico, per vettovaglie e truppe, erano più panciute e potevano contenere al max. 300 uomini.
Le navi destriere erano attrezzate per il trasporto dei cavalli che vi accedevano attraverso un grosso portellone sul lato di poppa. I particolari accorgimenti per il trasporto dei cavalli erano tali da consentire la presenza di non più di 100 unità. Gli scavi americani condotti nell’agorà hanno consentito di recuperare non poche testimonianze (numerose monete, fibbie e bardature di cavalli con il monogramma di Costante II) della presenza temporanea dell’esercito imperiale.
Le navi di media e grossa stazza del ‘400
La Fusta era un tipo di galea più snella, leggera e veloce e caratterizzata da un minor pescaggio rispetto alla classica galea da guerra, detta galea sottile. Fra la galea sottile e la galeotta si posiziona la fusta.
L’industria del mare: la pesca
Nel periodo Normanno-Svevo (XIII sec.) nel Mar Piccolo di Taranto ci sono delle peschiere, cioè dei “lotti di mare” di varia ampiezza delimitati da una palificazione e localizzati tanti nel Mar Grande quanti in Mar Piccolo.
Quelle peschiere probabilmente sono poi diventate i lotti di mare per la coltivazione delle cozze che, in origine, crescevano naturalmente in gran numero… come ancora oggi si vede.
I documenti ci parlano anche delle acciughe salate tarantine: sappiamo che queste erano particolarmente apprezzate dal principe di Salerno Carlo II d’Angiò (1254-1309), che le faceva arrivare a Salerno direttamente da Taranto.
Con gli occhi di un tarantino di fine Seicento
Sul finire del’600 Tommaso Niccolò D’Aquino, “patrizio tarantino” scrive un poema in latino “Delle delizie tarantine” dove celebra le bellezze di Taranto, e ne racconta la storia diventando in qualche modo testimonianza di un’epoca e di un ambiente.
C’è una esatta descrizione dei luoghi, l’osservazione degli usi e costumi nella loro evoluzione nel tempo. Si capisce l’aspetto e il funzionamento dell’antica Taranto dove, a quel tempo, un grande canale (non vi era il ponte di pietra) metteva in comunicazione i due porti della città, il Mar Grande e il Mar Piccolo: quello interno destinato alla flotta militare e quello esterno ai traffici mercantili con tutto il mondo conosciuto, dalla Crimea all’Egitto, dalla Spagna alla Cornovaglia. Da Taranto partiva soprattutto l’olio, ma anche tante altre merci come lane, pecore, cavalli, vini, porpore e tanti alimenti prodotti nelle campagne vicine.
Il poema delle cozze e del tonno
Nel suo poema su Taranto, D’Aquino descrive i pesci che popolano il mare del posto, coglie le differenze fra quelli del Mar Grande e del Mar Piccolo.
Fornisce preziose informazioni sulla pesca, assunte direttamente dai pescatori, le cui tradizioni di lavoro e norme di vita risalivano a epoche lontanissime.
Ci racconta ad esempio del tonno (dieci pagine di descrizione!) e della tonnara di Capo San Vito, della pescicoltura nei vivai lungo la costa, della coltivazione (i cosiddetti “giardini” ) delle mitiche cozze di Taranto. E racconta le industrie del mare ormai scomparse: la porpora e il bisso, la produzione delle ostriche, di cui Taranto andava un tempo famosa.
I giardini delle ostriche
A Taranto, la coltivazione delle ostriche pare risalga al IV secolo d.C.. Col tempo, gli ostricoltori locali hanno messo a punto una singolare tecnica di coltura, ancora oggi praticata, anche se su scala ridotta.
Ostricari presso punta Pizzone all’interno di Mar Piccolo, Taranto, 1913
(da Rassegna Pugliese di Scienze Lettere ed Arti, vol. XXVIII, gennaio 1913, p.244)
La coltivazione delle ostriche a Taranto nel 1951, dall’archivio dell’Istituto Luce
Nei mesi di maggio e giugno, in Mar Grande, nei pressi delle Isole Cheradi, gli ostricoltori affondano, ad una trentina di metri di profondità, delle fascine di lentisco (un arbusto mediterraneo). Dopo circa tre mesi, queste si riportano in superficie, si tagliano i ramoscelli su cui si sono fissate le ostrichine, chiamati in gergo zippe, e li si innesta a corde vegetali dette libàni;
Le corde poi si fissano ai pergolari, sostenuti dalla tipica paleria di castagno infissa sui fondali del Mar Piccolo e che costituiscono le sciaie, veri e propri giardini marini accuditi attentamente dai cosiddetti sciaiaruli.
Negli anni Venti del secolo scorso, nelle acque del solo Mar Piccolo erano tenute in allevamento 35-40 milioni di ostriche, produzione in seguito molto ridimensionata.
Punto di ritrovo nel Mediterraneo antico
Il territorio tarantino ha visto il passaggio e la permanenza di tantissime etnie. Micenei, spartani e romani nell’antichità, e poi nel IV secolo d.C. le prime testimonianze della presenza di una comunità ebraica a Taranto risale al IV secolo d.C.. Durante la dominazione bizantina, in Puglia si stabilirono popolazioni provenienti dalla Grecia, dalla Tracia, dalla Cappadocia, dall’Armenia e persino russo-vareghi, che decisero quindi di risiedere definitivamente nel territorio del Salento.
L’anonimo longobardo che scrisse il “Chronicon Salernitanum” visitò Taranto negli ultimi mesi dell’839, e la città gli appare profondamente legata al mare, affollata di genti e ricca. Ci parla delle numerose osterie e mercati, dove si vendevano cibi, vini e vasellame.
La comunità ebraica
La comunità ebraica era legata ai traffici commerciali (come le comunità armene), seppure decentrata dalle rotte da e per il Mediterraneo orientale note in questo periodo: potrebbero avere partecipato alla importazione di prodotti africani e orientali di cui si ha documentazione.
Nel 1167, secondo il geografo ed esploratore spagnolo di cultura ebraica Beniamino di Tudela (1130-1173), Taranto ospita una comunità ebraica di 200 famiglie.
Nel 1474, a Taranto si fissa il tasso di interesse che gli ebrei possono praticare nei finanziamenti commerciali a grana 15 ad oncia, mentre quello corrente era di grana 18 o 20 ad oncia.
La cultura del mare a tavola
La frisella è uno dei prodotti della tradizione, sostituiva il pane perché più durevole e trasportabile, era consumato per questo motivo dai marinai nei viaggi in mare. Il nome ‘bis-cotto’ ci dice che viene cotto due volte, come le ciambelle: durante la prima infornata, a metà cottura, le friselle si tagliano con uno spago. Per farle bastano pochi e semplici ingredienti: acqua, farina (di qualsiasi tipo: grano duro, orzo o altri cereali) sale e lievito.
Le friselle fra storia e leggenda
Si dice che le friselle fossero il pane da viaggio delle navi fenicie, già nel 2000 a.C.. Anche se i Fenici sono sbarcati più volte in Puglia, la leggenda vuole che a farle conoscere sia stato l’eroe greco Enea che, nella sua fuga da Troia, sarebbe approdato nei pressi di Otranto, portando con sé questo strano pane da viaggio di forma circolare.
Alla fine del Duecento, sotto gli Angioini, numerosi erano i panificatori che fornivano l’alimento principe per le ciurme, cioè il cosiddetto “biscotto della flotta”, prodotto con farine non raffinate.
Per mangiarle, i marinai le inzuppavano nell’acqua di mare e le condivano con olio d’oliva, accostandole ad altri alimenti poveri come cipolle, ravanelli, datteri e fichi secchi. Tuttavia, oltre ai marinai anche i crociati ne apprezzarono la lunga durata e la facilità di trasporto: la forma circolare col buco al centro permetteva di tenerle legate e sospese con una cordicella realizzata con le fibre dell’agave.