Giovanni Guarino intervista
SAN CATALDO, protettore dei Naviganti
San Cataldo benigno, di pregarti non sono degno tu sei il nostro protettore, prega tu Nostro Signore
Liberaci, san Cataldo da flagelli e terremoti, da fulmini e tempeste, da guerre, fame e peste.
Questa è la preghiera che i cataldiani recitano per chiedere la mia intercessione.
I cataldiani, i tarantini, amano farsi chiamare così in mio onore, come se fossero miei figli. E per la grande devozione che hanno per me, la città è piena di simboli che mi riguardano: dal bellissimo “Cappellone”, vero gioiello di arte barocca, uno scrigno ricco di preziosi intarsi in marmi policromi, anche questo chiamato con il mio nome.
O il grande citro, una sorgente sottomarina che sgorga nella rada di Mar Grande, e che chiamano l’Anello di San Cataldo.
Finanche mi hanno dedicato un grandissimo ospedale, ma è il rapporto con il mare che mi lega da sempre alla città di Taranto.
Ero in Terrasanta, a pregare sul Sepolcro di Cristo.
Avevo compiuto il mio sacro dovere di pellegrino e con la fede rinvigorita, pensai di ritornare in Irlanda per riprendere il mio vescovado.
Ma Dio mi apparve in sogno e mi ordinò di accorrere nella città di Taranto.
Era ormai diventata un cumulo di rovine per la fede, vi era solo desolazione spirituale.
Ero un monaco, ero un Vescovo, dovevo obbedire e obbedii.
Partito dalle coste della Palestina, il viaggio fu tranquillo finché, superato il capo iapigio,
entrammo nello Jonio e lì fummo catturati da una terribile tempesta.
La nave era sempre più sballottolata, e sospinta verso la riva, fino a naufragare, ed incagliarsi.
Un urlo, uno dei marinai era precipitato sul ponte. Sembrava morto.
Allungai le mani: “Vieni da me” gli dissi. Si alzò, si inginocchiò e cominciò a pregare. Anche tutti gli altri pregarono.
Eravamo distanti dalla città di Taranto, ma appena mi misi in cammino incontrai una pastorella, e le chiesi informazioni per raggiungere la città.
La poverina era sordomuta, la miracolai e potette darmi le indicazioni.
Fu il mio primo miracolo che feci sulle terre di Taranto.
Giunto in città, preceduto ormai dalla fama di santo taumaturgo, il popolo tarantino non si lasciò sfuggire l’occasione e mi accolse filialmente e con devozione, nominandomi proprio Vescovo.
Con l’aiuto di Dio compii la mia opera evangelizzatrice; feci miracoli, curai gli ammalati, punii gli ingiusti, feci abbattere i templi pagani e fino alla fine dei miei giorni riportai tutti i tarantini alla fede di Dio.
Passarono i secoli e la città fu devastata più volte; bizantini, saraceni, di me, del mio corpo si persero le tracce, ma non della mia memoria.
Fino a quando, il 10 di maggio del 1071, durante i lavori di ampliamento della cattedrale a croce latina, voluta dall’arcivescovo normanno Drogone, gli operai mentre sterravano, udirono il loro piccone urtare contro un sarcofago, dal quale veniva fuori un profumo delicato. La tomba fu aperta in presenza delle autorità religiose, e dentro vi trovarono il mio corpo, con sopra una piccola crocetta aurea con scritto “Cataldus”.
Dopo secoli mi rivelavo ai miei figli prediletti, ero di nuovo tra loro anche con il mio corpo.
Furono tanti i miracoli, le guarigioni e la devozione per me crebbe in tutto il meridione, e anche oltre.
Ma i cataldiani, i tarantini sono sempre i miei figli prediletti e a ricordarlo è una statua che mi raffigura benedicente, posta alla fine del molo chiamato proprio “San Cataldo”.
E lì da moltissimi anni accolgo e saluto i naviganti mentre prendono il mare aperto. “L’occhio fisso di Dio, la mente contro l’ira dei nembi. Per la salute dei naviganti.
Il cuore per la mia città splendida di fede e di gloria”.
*** Trascrizione generata automaticamente ***